Potremmo ritornare

Roberta era stata a tante cene della serie «ti ricordi di me?», ma quella con i compagni delle medie ancora le mancava. Il passato non sempre le era stato amico, colpa soprattutto della sua timidezza che l’aveva sempre segregata nelle ultime file della classe. Questo l’aveva condizionata anche nel rendimento scolastico, per cui nessuno se l’era mai filata se non per chiederle: «ma sei timida?», domanda che mette tutti gli «incompresi» in difficoltà.

Trent’anni dopo, le era arrivata una lettera a casa, accompagnata da una foto della sua classe, firmata da Giorgio De Pisis, uno dei pochi che ricordava bene. Era il ciccione della scuola che un po’ le faceva la corte, all’epoca, ed era il bersaglio di tutti, per cui lei non se la sentiva di prenderlo in considerazione.

Quella foto la emozionò. Vedersi bambina, con gli occhi smarriti, mentre tutti gli altri sorridevano, le fece capire che per lei era sempre stato tutto in salita.

Per fortuna aveva imparato a fare i conti con il proprio carattere, aveva fatto un corso di teatro, si era sposata ed era stata felice per qualche anno.

Quando si era accorta di non essere più innamorata, dopo una pizza rucola e prosciutto crudo, aveva trovato il coraggio di dire al marito: «Non ti amo più», ed era tornata la donna solitaria che era sempre stata.

Non aveva avuto figli, solo qualche amica con cui andare alle terme o fare gite fuori porta nei weekend.

Accettò l’invito a quella cena di classe proprio perché non aveva di meglio da fare.

L’appuntamento era in una vecchia trattoria di Verona, un po’ defilata dal centro storico affollato di turisti. Pensava di trovare una tavolata a ferro di cavallo, una di quelle dove se capiti nel lato sbagliato del tavolo sei fregato.

Invece, incredibilmente, il tavolo era solo da due, e Giorgio era già seduto.

«Ma… De Pisis… sei tu?»

«Sono io, certo. Sono contento che tu mi abbia riconosciuto.»

«Uno può cambiare quanto vuole, ma gli occhi restano sempre gli stessi.»

«Anche i tuoi non sono cambiati, anche se li tenevi sempre bassi.»

Roberta si guardò intorno per togliersi da quel lieve imbarazzo.

«E gli altri?»

«Gli altri non li ho trovati… o meglio: la maggior parte ha risposto che non poteva. Siamo rimasti noi due, e sinceramente a questo punto volevo rivederti.»

«Anche io ero incuriosita… ma sbaglio o eri più robusto?»

Giorgio sorrise e si toccò la pancia.

«Beh, diciamo un po’ più di robusto. Poi ho iniziato a volermi bene e alla fine se ne sono andati anche i chili.»

Roberta si guardò intorno: coppiette felici parlavano piano e bevevano Amarone. Per un attimo, ebbe la sensazione di essere un po’ sfigata. Soltanto una ragazza che non ha niente da fare può essere libera per una cena di classe delle medie con uno che le moriva dietro.

Giorgio percepì quella sensazione e, anziché scherzarci su, si lanciò in nuovi argomenti di conversazione, ma non andò oltre a: «tu per quale squadra tifi?» e «ti trovi bene a Verona?».

Era andato nel pallone. Dopo un piatto di tagliatelle, non sapevano più cosa dirsi.

Lui tentò allora con i ricordi, ma erano così lontani e sbiaditi che non avevano alcuna ragione per riemergere. Dopo il terzo bicchiere di vino, Roberta iniziò a ridere.

Una risata che non riuscì a controllare, come se in una sera avesse tirato fuori tutte le risate che non aveva mai fatto.

Il suo vecchio compagno di scuola non sapeva davvero come comportarsi e si ripeteva chi gliel’aveva fatto fare di scomodare quelli delle medie. Ci teneva a far vedere che la sua vita era cambiata, ma ormai era tardi.

«Alla fine voi donne siete sempre uguali: forti con deboli, e deboli con i forti» protestò sconsolato.

Roberta cambiò rapidamente espressione e capì che qualcosa di bello poteva ancora succedere.

«Non è vero», gli rispose, «e te lo dimostrerò.»

Dopo una settimana, lo invitò a uscire con lei e a fine serata, dopo il caffè, gli diede un bacio.

 

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