Giorgia odiava sua suocera perché secondo lei le stava rovinando la vita.
Pur di accontentare suo marito Giancarlo, dopo le nozze aveva accettato di vivere nello stesso palazzo dei genitori di lui, che possedevano un appartamento al piano di sotto da destinare al loro unico figlio maschio. E anche se aveva 37 anni e pesava 78 chili, la madre lo chiamava ancora Giancarlino, e Giorgia assisteva quasi ogni giorno a questa scena patetica. Abitando al piano di sotto della “serpe”, come la chiamava lei, ogni volta che sollevava la testa dal balcone la trovava intenta a stendere o a far finta di guardare fuori, e lei si sentiva spiata come al Grande Fratello. Puntualmente, poi, aveva qualcosa da ridire: da come andavano bagnati i gerani al modo per allontanare i piccioni. Come se non bastasse, la domenica erano tutti obbligati ad andare a mangiare dalla “serpe”, che preparava un menù ad hoc per Giancarlino con le cose che piacevano solo a lui: carciofi fritti, porcini trifolati, bresaola con rucola e parmigiano e, naturalmente, la pasta con le polpette. Anche quando la rimpatriata era con le altre sorelle, la suocera aveva un occhio di riguardo solo per il figlio prediletto. Ovviamente tutto ciò che la nuora diceva, faceva o proponeva, la suocera era sempre in grado di farlo in modo alternativo e, soprattutto, migliore. Le poche occasioni in cui Giorgia provò a dire a Giancarlo che sarebbe stato meglio, per il loro matrimonio, staccarsi da quel condominio, spuntavano fuori le spese per affrontare la nuova avventura con il rischio, tra l’altro, che la suocera ci rimanesse così male da diseredarli. L’unico modo che Giorgia trovò per provare a uscire fuori da quella situazione fu di chiedere a sua cugina Anna, che si era trasferita a Pisa per studiare psicologia, e a lei questa cosa sembrava potesse risolverle la vita. Così, sotto la Torre Pendente – che dal vivo le sembrò meno pendente e meno gigante – sua cugina le consigliò di evitare lo scontro ma di avviare un confronto: “Invitala per un caffè, portala a casa tua…” le disse secca. E Giorgia tornò a casa pronta ad attuare una nuova strategia, che poi ci poteva arrivare pure da sola. Un pomeriggio in cui “Giancarlino” era via per lavoro, provò ad azzardare un invito al telefono: “Mi fa piacere, Giorgia, ma il caffè come lo faccio io non lo fa nessuno… quindi preferirei che venissi tu da me.” Non fu una risposta accomodante, ma almeno la “serpe” non le aveva sbattuto il telefono in faccia. Appena Giorgia salì, dopo averle fatto mettere le pattine, dopo avere fatto vedere i nuovi centrini, dopo averle mostrato l’ultimo modello di tagliapane elettrico e il puzzle che stava cercando di completare, la suocera si ritirò in cucina per preparare il “suo” caffè. Giorgia si guardò intorno cercando qualche argomento per affrontare la questione, ma non sapeva bene da dove partire. Sul tavolino del salotto, un puzzle incompleto dell’Abbazia di Montecassino. Giorgia non aveva mai fatto un puzzle in vita sua, ma osservandolo le sembrò un passatempo piuttosto elementare. Magicamente, tutti i pezzi trovarono la loro collocazione con grande facilità. Era come se qualcuno le suggerisse il punto esatto in cui mettere le tessere. Quando la suocera, tornando con il caffè, vide la nuora in procinto di finire il puzzle che la faceva impazzire da giorni, iniziò a pensare che suo figlio avesse veramente sposato la ragazza giusta per lui. Da allora, la “serpe” fu molto più indulgente con lei fino a ritrovarsi, durante un pranzo di famiglia, a chiamarla Giorgetta.